Si domandava se anche lei, come Siria, avesse una propria casa. Disponeva di un’abitazione sì, pensava, ma casa non era solo un posto dove mangiare, dormire e studiare; casa era un’altra cosa o, per migliore dire, era tante altre cose ancora.
Il villino grigio dove era nata, quello che si trovava nel paese con il campanile, casa non lo era più da quando aveva abraso dalle tracce della propria memoria i ricordi e i nomi di chi l’aveva abitata insieme a lei, ma casa non era nemmeno quel bell’appartamento in città con i tappeti persiani, dove risiedeva da quando era arrivata in Italia e dove calore, affettuosità e risate rappresentavano degli ospiti assai rari.
Ogni volta che viaggiava in treno, Anna si incantava nell’osservare le finestre delle case che veloci le correvano accanto e fantasticava sulla vita che si nascondeva dietro a quelle tende. Che, chissà perché, nella sua fantasia era sempre festosa e piena di luce come le lenzuola colorate che nei giardini si muovevano al ritmo del vento.
Forse la immaginava così, perché le piaceva pensare che un giorno anche lei avrebbe potuto scrivere che stava tornando a casa.
Ma come si fa a trovare un casa? Si chiedeva.
Non un immobile da affittare o acquistare, ma un luogo caldo, accogliente, pieno di risate e di comprensione.
E quale era la chiave per definire un posto la propria casa?
Probabilmente, ancora una volta, la parola magica era amore, ragionava tra sé e sé, l’amore che, come dice Gaber, è una parola strana che vola troppo e che soprattutto volava troppo per Anna che si sentiva sempre più confusa in merito al suo significato.
Eppure lei non si sarebbe arresa. Avrebbe trovata una casa, la sua casa, si disse con determinazione. Tornò così, con i suoi progetti architettonici in tasca, a cercare di raggiungere l’amore.

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