Casa dolce casa

Si domandava se anche lei, come Siria, avesse una propria casa. Disponeva di un’abitazione sì, pensava, ma casa non era solo un posto dove mangiare, dormire e studiare; casa era un’altra cosa o, per migliore dire, era tante altre cose ancora.
Il villino grigio dove era nata, quello che si trovava nel paese con il campanile, casa non lo era più da quando aveva abraso dalle tracce della propria memoria i ricordi e i nomi di chi l’aveva abitata insieme a lei, ma casa non era nemmeno quel bell’appartamento in città con i tappeti persiani, dove risiedeva da quando era arrivata in Italia e dove calore, affettuosità e risate rappresentavano degli ospiti assai rari.
Ogni volta che viaggiava in treno, Anna si incantava nell’osservare le finestre delle case che veloci le correvano accanto e fantasticava sulla vita che si nascondeva dietro a quelle tende. Che, chissà perché, nella sua fantasia era sempre festosa e piena di luce come le lenzuola colorate che nei giardini si muovevano al ritmo del vento.
Forse la immaginava così, perché le piaceva pensare che un giorno anche lei avrebbe potuto scrivere che stava tornando a casa.
Ma come si fa a trovare un casa? Si chiedeva.
Non un immobile da affittare o acquistare, ma un luogo caldo, accogliente, pieno di risate e di comprensione.
E quale era la chiave per definire un posto la propria casa?
Probabilmente, ancora una volta, la parola magica era amore, ragionava tra sé e sé, l’amore che, come dice Gaber, è una parola strana che vola troppo e che soprattutto volava troppo per Anna che si sentiva sempre più confusa in merito al suo significato.
Eppure lei non si sarebbe arresa. Avrebbe trovata una casa, la sua casa, si disse con determinazione. Tornò così, con i suoi progetti architettonici in tasca, a cercare di raggiungere l’amore.

Omertà del profondo nord

Quando la porta le si chiuse alle spalle, Anna scoprì con sollievo che in casa c’era soltanto la sorellina che era impegnata con i compiti estivi. Velocemente si infilò in bagno e aprì la doccia. Lo scroscio dell’acqua si mischiava alle lacrime, mentre cercava di sciacquare via l’odore, il seme e il ricordo di quell’individuo. Più del dolore per la violenza subita però prevalevano in lei la sensazione di essere stata una stupida a fidarsi di uno sconosciuto e, soprattutto, il lancinante dubbio che avrebbe potuto impedire tutto questo se solo avesse lottato abbastanza. Per quanto strofinasse, questi pensieri la tormentavano senza lasciarsi lavare via .
Esausta si asciugò corpo e lacrime e uscì dal bagno proprio mentre la madre stava rincasando. Al suo sguardo interrogativo, quando vide il viso gonfio e gli occhi arrossati della figlia, Anna rispose scoppiando nuovamente in un pianto violento. Tra singhiozzi e muco raccontò quello che le era accaduto. Non sapeva esattamente quale reazione attendersi, ma sperava intensamente che la madre le confermasse che no, il sospetto non andava mai coltivato e che sì, aveva fatto bene a non mettere a rischio la propria vita, e che le sue parole avrebbero avuto il potere di liberarla da quel nero macigno che sentiva frantumarle il cuore. Sicuramente però non si aspettava le frasi che la colpirono come uno schiaffo in pieno viso:
– Mio dio! Devi sempre darmi dei pensieri. Basta che non lo venga a sapere tuo padre, che altrimenti mi uccide!
Con queste affermazioni la genitrice la licenziò, indossò il grembiule e scomparve in cucina per preparare la cena e stendere un velo di eterna omertà su quella storia.
Lei invece si chiuse nella propria stanza e vi trascorse parecchio tempo cullandosi in un buio integrale a cui nessuno avrebbe avuto accesso fino al giorno in cui avrebbe, ancora una volta, deciso di vincere la vita.
In quel periodo Anna comprese che se anche i folli si cullano per non sentire forte il dolore, forse non sempre i folli sono loro.