Ugo

Davvero, si chiamava così. Un nome breve e facile da ricordare, anche se Anna avrebbe ricordato in ogni caso quel ragazzo, pure se si fosse chiamato Ermenegildo, perché ai suoi occhi era bellissimo e – lo abbiamo già detto – lei aveva un senso estetico molto sviluppato.
Non solo Ugo però era bello o almeno molto carino, ma con i suoi diciannove anni le sembrava quasi un uomo e questo gli conferiva ulteriore fascino. Dopo una settimana dal loro incontro davanti alle cassette di fave, lui chiese il suo numero telefonico a Lilia e la invitò a cena. In un ristorante vero con le tovaglie e i tovaglioli di stoffa e non in una di quelle pizzerie con i tavoli in legno e le tavogliette di carta su cui il cameriere poggiava prima i piatti e poi scriveva il conto a fine serata. Dopo cena Ugo la riaccompagnò in macchina fin sotto casa e questo fece sentire anche lei particolarmente grande, quasi una donna.
Il bel diciannovenne aveva interrotto gli studi dopo il diploma e lavorava come barista, ma il suo grande sogno era quello di guidare il camion. Quello di Anna era diventare una scrittrice o una filosofa, ma a quindici anni il concetto delle divergenze culturali è soltanto un’astrazione da vecchi disfattisti e brontoloni.
Al loro secondo appuntamento lui la baciò e al terzo la presentò ai genitori che si mostrarono entusiasti. Soprattutto la mamma di Ugo prese a voler bene sin da subito a quella ragazzina dagli occhi sognanti e, alla prima occasione, le regalò un orso di peluche gigante insieme alla raccomandazione di portare pazienza con quello scellerato del figlio. Anna ricambiava l‘affetto di quella donna piccolina che, nonostante lavorasse l‘intero giorni come sarta e si prendesse cura di casa, marito, figli e due nipoti, le portava il caffè a letto quando il sabato sera si fermava a dormire da loro. Un gesto che la commuoveva, forse perché per sua madre sarebbe stato impensabile: da anni questa non si alzava nemmeno per prepararle la colazione prima di scuola, perché, come era solita sottolineare, lei non era mica la schiava dei suoi figli.
Per quanto riguardava la raccomandazione che la mamma di Ugo le aveva rivolto, invece, Anna aveva già imparato che le mamme italiane, quando definiscono il proprio figlio uno scellerato, non criticano il loro pargolo, ma ne giustificano a priori qualsiasi cosa avrebbe potuto fare un domani, dichiarando al contempo il loro amore incondizionato per il core de mamma. Quindi si era limitata ad annuire in silenzio.
Poco dopo la loro prima cena insieme, Anna decise che era arrivata l’ora di interrompere la pausa e di affrontare la sua prima volta bis. Così, quando Ugo aveva il giorno libero, i due si rifugiavano nella casa al mare, dove la famiglia di lui trascorreva le estati. Con lui Anna imparò ad apprezzare il calore dei corpi che si avvolgono, apprese cosa era il petting di cui aveva letto nell’inserto chiuso di Dueppiù – giornale che, in origine, aveva acquistato perché le piaceva il disegno di Ciccioriccio in copertina e che poi aveva continuato a comprare tutti i mesi – e comprese che l’amore può anche essere gentile. Per parafrasare una canzone di Gaber, però, forse perché non erano d’accordo su tutto, né sul politico né sul personale, o chissà per quale altra ragione, lui aveva un blocco nel senso del rapporto genitale. A lei non sembrava una tragedia (una pausa prolungata di un mese in più mese o in meno, che importanza poteva mai avere?), ma per lui sembrava essere un vero e proprio dilemma e spesso, al ritorno dalla casa al mare, mentre l’autoradio trasmetteva le canzoni di Battisti e Anna lasciava che il vento le scompigliasse i capelli indicando il meraviglioso tramonto del sole sul mare, lui le chiedeva stizzito cosa mai ci trovasse di romantico in un fenomeno naturale che lui aveva visto ogni giorno da quando era nato, e lei ci rimaneva male
Quando, infine, Anna gli fece conoscere i suoi nuovi amici del liceo classico e lui constatò che non capiva né lei né loro mentre parlavano, Ugo decise che quel loro amore doveva finire e che preferiva trascorrere le giornate con i propri amici.
Anna pianse molto e passò i pomeriggi sdraiata in camera sua scrivendo il nome di lui sulle pareti e sul soffitto fino al giorno in cui la vita la distrasse. La storia con Ugo le lasciò in orso gigante, qualche ulteriore incertezza sul sesso, la predilezione per le mamme italiane e una stanza piena di graffiti.

Prospettive con la cappa

Succedeva così che in uno stesso giorno Anna dismettesse le vesti della piccola fiammiferaia per indossare quelle della principessa de’ noantri. Perché l’appartamento che i suoi avevano acquistato faceva parte di un esiguo numero di palazzine moderne e costose che si trovavano in una piccola via di confine tra due delle più popolari borgate della città.
L’affaccio su una fila di alberi sempreverdi, il doppio cancello d’ingresso, l’androne con i pavimenti in marmo e le immagini di Roma Antica che ne ornavano le pareti creavano uno stridente contrasto con le case popolari circostanti, dove le scale odoravano di candeggina e di fettine alla pizzaiola. Il giorno del suo arrivo a Roma, quell’androne le era sembrato un salone reale, a lei che di androni così non ne aveva mai veduti, perché nel paesino da cui proveniva le case erano di uno o due piani e i lignei portoni d’ingresso avevano una finestrella di vetro smerigliato, dietro alla quale chi aspettava sembrava una di quelle immagini che si vedono guardando attraverso un prisma a specchio.
Nelle case popolari le sue coetanee giocavano a palla prigioniera contro il muro o con le Barbie, e lei si chiedeva come, all’età di dodici anni, potessero ancora giocare con le bambole. In TV seguivano con entusiasmo la storia di uno strano pulcino che si lamentava del colore delle sue piume, ma a lei, che non comprendeva bene la lingua, quel piumato sembrava soltanto uno che faceva un sacco di baccano e non capiva cosa ci fosse da ridere. Le ragazzine di quelle case avevano quasi tutte capelli lunghi e scuri di cui andavano fiere e spesso giocavano per ore alle parrucchiere. Anche a lei piacevano molto le loro chiome folte, ma non comprendeva quel desiderio di lavorare, un domani, come parrucchiera. Forse perché suo padre le ripeteva che, se avesse continuato a prendere bei voti, le avrebbe comprato una farmacia, anche se lei voleva diventare una scrittrice.
Grazie alle ragazzine di quella borgata tanto distante dalle partite di cricket e dai dolci di carote, scoprì anche una letteratura che fino a quel giorno le era del tutto sconosciuta. Le letture che andavano per la maggiore tra le giovanissime e le loro madri erano racchiuse nelle alte pile di fotoromanzi che poteva ammirare nelle loro camerette; sua madre invece leggeva soltanto libri dalla copertina rigida che parlavano della vita di Napoleone o di viaggi in Africa e che riponeva ordinatamente nella libreria del salone.
Anna sfogliava dunque le riviste patinate con il dovuto snobismo, seppur con grande curiosità per le vicissitudini di quei personaggi dall’aspetto affascinante e dai nomi con le cappa e le acca. Quando scoprì che la casa editrice che li pubblicava si trovava poco distante dalla sua abitazione, se anche non lo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura, per un certo periodo sognò segretamente di essere scoperta, mentre camminava per le vie di quella borgata, come possibile interprete dei romanzi futuri; esattamente come facevano le ragazzine delle case gialle e rosse sbiadite dal sole. Senza ovviamente raccontarlo a casa.


Il dolce di carote e un ficus

A dodici anni si ritrovava dunque in una città straniera di cui non parlava la lingua, priva di quel bagaglio di amicizie che solitamente ci si porta dietro dalle ore trascorse all’asilo o alle elementari.
Al contrario di quanto le avevano assicurato i grandi, crearsi delle amicizie nuove non si rivelò affatto un’impresa semplice. Al suo arrivo nella scuola d’élite era stata sistemata nell’unico banco dove nessuno voleva sedere (vicino alla bambina che aveva una disabilità grave e si muoveva in modo incontrollato e parlava in modo incomprensibile) ed era stata accolta da sbeffeggiamenti per il suo abbigliamento variopinto da parte da alcune delle bionde di tweed vestite. Per quanto fosse di indole socievole e nonostante gli insegnamenti cattolici ricevuti, porgere l’altra guancia a quelle lì le sembrava una pretesa decisamente eccessiva, e scelse come sue amiche due ragazzine che non si erano allineate con il comportamento delle altre. Le incontrava per studiare insieme, anche se i pomeriggi passati a casa loro la lasciavano frastornata, e non soltanto per colpa dell’enorme distanza geografica che sempre, all’interno della stessa città, separa la periferia dai quartieri eleganti.
La famiglia di Tania abitava in una bella villa circondata da un grande giardino con piscina, dove i ragazzi giocavano a kricket e facevano merenda con il dolce di carote preparato dalla governante. L’interno della casa appariva invece stranamente ostile con i suoi mobili spartani e l’assenza di colori e, così le sembrava, di un’anima. Nonostante il padre di Tania, le rare volte che lo incontrava, palesasse una certa simpatia per la sua piccola persona, lei avvertiva un senso di disagio appena ne incrociava la moglie, una protestante devota che tra té per signore, mercati di beneficenza e un marito sempre via per affari, aveva messo al mondo tre figli biondi come lei e che le parlava con gentilezza e le sorrideva clemente sottolineando così, senza probabilmente nemmeno rendersene conto, la sua bontà nel non farle pesare la differenza di classe.
Anita, invece, abitava in in un quartiere, dove le case avevano piccoli balconi con fioriere colorate e le imposte delle finestre erano in legno. Era figlia unica di una coppia di sinistra e molto colta. Furono i primi comunisti che Anna conobbe nella vita e non somigliavano affatto all’immagine che i racconti fatti di muri, filo spinato e storie del KGB, avevano dipinto nella sua mente. Il padre non aveva i baffi e non indossava occhialini tondi e nemmeno usava toni perentori, anzi, quasi sussurrava. Studiava una lingua antica che citava anche in casa, mentre si passava in modo compulsivo la mano sulla testa calva. Quando non parlava in quel modo, suonava il piano e cantava di suore e di preti che apostrofava in modo poco elegante. A lei creava un po’ di imbarazzo, ma attribuì la colpa al fatto che non aveva mai veduto da vicino una persona di cultura elevata. La madre di Anita trascorreva invece i pomeriggi leggendo quotidiani e libri o lavorando a maglia, e quando le ragazze avevano finito i compiti per scuola, qualche volta esponeva loro le problematiche della classe operaia e del proletariato tra divani di velluto e cornici d’argento.

Le due famiglie appartenevano a ideologie e nazionalità diverse, questo le era chiaro. Eppure il dolce di carote delle partite di cricket e dei tuffi in piscina aveva per Anna lo stesso identico sapore della pasta alla ricotta servita tra il ficus benjamina e il piano.