Il dolce di carote e un ficus

A dodici anni si ritrovava dunque in una città straniera di cui non parlava la lingua, priva di quel bagaglio di amicizie che solitamente ci si porta dietro dalle ore trascorse all’asilo o alle elementari.
Al contrario di quanto le avevano assicurato i grandi, crearsi delle amicizie nuove non si rivelò affatto un’impresa semplice. Al suo arrivo nella scuola d’élite era stata sistemata nell’unico banco dove nessuno voleva sedere (vicino alla bambina che aveva una disabilità grave e si muoveva in modo incontrollato e parlava in modo incomprensibile) ed era stata accolta da sbeffeggiamenti per il suo abbigliamento variopinto da parte da alcune delle bionde di tweed vestite. Per quanto fosse di indole socievole e nonostante gli insegnamenti cattolici ricevuti, porgere l’altra guancia a quelle lì le sembrava una pretesa decisamente eccessiva, e scelse come sue amiche due ragazzine che non si erano allineate con il comportamento delle altre. Le incontrava per studiare insieme, anche se i pomeriggi passati a casa loro la lasciavano frastornata, e non soltanto per colpa dell’enorme distanza geografica che sempre, all’interno della stessa città, separa la periferia dai quartieri eleganti.
La famiglia di Tania abitava in una bella villa circondata da un grande giardino con piscina, dove i ragazzi giocavano a kricket e facevano merenda con il dolce di carote preparato dalla governante. L’interno della casa appariva invece stranamente ostile con i suoi mobili spartani e l’assenza di colori e, così le sembrava, di un’anima. Nonostante il padre di Tania, le rare volte che lo incontrava, palesasse una certa simpatia per la sua piccola persona, lei avvertiva un senso di disagio appena ne incrociava la moglie, una protestante devota che tra té per signore, mercati di beneficenza e un marito sempre via per affari, aveva messo al mondo tre figli biondi come lei e che le parlava con gentilezza e le sorrideva clemente sottolineando così, senza probabilmente nemmeno rendersene conto, la sua bontà nel non farle pesare la differenza di classe.
Anita, invece, abitava in in un quartiere, dove le case avevano piccoli balconi con fioriere colorate e le imposte delle finestre erano in legno. Era figlia unica di una coppia di sinistra e molto colta. Furono i primi comunisti che Anna conobbe nella vita e non somigliavano affatto all’immagine che i racconti fatti di muri, filo spinato e storie del KGB, avevano dipinto nella sua mente. Il padre non aveva i baffi e non indossava occhialini tondi e nemmeno usava toni perentori, anzi, quasi sussurrava. Studiava una lingua antica che citava anche in casa, mentre si passava in modo compulsivo la mano sulla testa calva. Quando non parlava in quel modo, suonava il piano e cantava di suore e di preti che apostrofava in modo poco elegante. A lei creava un po’ di imbarazzo, ma attribuì la colpa al fatto che non aveva mai veduto da vicino una persona di cultura elevata. La madre di Anita trascorreva invece i pomeriggi leggendo quotidiani e libri o lavorando a maglia, e quando le ragazze avevano finito i compiti per scuola, qualche volta esponeva loro le problematiche della classe operaia e del proletariato tra divani di velluto e cornici d’argento.

Le due famiglie appartenevano a ideologie e nazionalità diverse, questo le era chiaro. Eppure il dolce di carote delle partite di cricket e dei tuffi in piscina aveva per Anna lo stesso identico sapore della pasta alla ricotta servita tra il ficus benjamina e il piano.

Sedili in legno, completi di tweed e pinze

Pochi giorni dopo il suo arrivo in quella città che ospitava più case e vie di quante lei ne avesse vedute durante i suoi dodici anni di vita, si ritrovò in mano un abbonamento dei mezzi pubblici e i suoi le annunciarono che era pronta per andare da sola. Con indosso un pantalone sintetico lilla e un maglione di ciniglia a righe verdi, gialle e blu, che inesorabilmente fece di lei una straniera da individuare al primo sguardo, iniziò il suo viaggio quotidiano attraverso la giungla di asfalto e di suoni sconosciuti. Stipata sul vecchio tram dai sedili in legno, tra grasse signore con il carrello della spesa, geometri con il maglione a dolcevita, studenti rumorosi e maniaci silenti, tutte le mattine si lasciava alle spalle la periferia romana con i casermoni e i giardinetti dall’erba bruciata per raggiungere la scuola che si trovava nei quartieri alti della città, tra palazzi signorili e belle fontane. Si trattava di una scuola d’élite – perlomeno così era scritto nella presentazione che veniva consegnata al momento dell’iscrizione – dove insegnanti e alunni parlavano la lingua del suo paese di origine e l’italiano lo si studiava come seconda lingua straniera.

Ignorava cosa significasse esattamente la parola “élite” ma, dopo alcune settimane di frequentazione, giunse alla conclusione che doveva trattarsi di una definizione che raccoglieva in una sola parola capelli biondi e fluenti, completi di tweed e maglioni norvegesi, campi-scuola sulla neve, lezioni di tennis e di pianoforte, padri ambasciatori, consoli o dirigenti, pagelle scritte su misura per chi possedeva un cognome di rilievo e persino la domanda che si sentiva rivolgere a ogni festa di compleanno, quando i grandi le chiedevano con lo stesso sorriso bonario del terriero bianco che si rivolge al piccolo inserviente di colore, lei di chi fosse figlia. E così, poco dopo il suo ingresso nell’istituto elitario, la primogenita di un cameriere emigrato in gioventù e tornato in una patria che non gli apparteneva più, seppur ancora dubbiosa sul senso di quell’aggettivo, poté affermare con certezza matematica che per sopravvivere davvero ai calci nello stomaco che assesta il pregiudizio sociale, la passione per il latino o per l’etimologia delle parole, la fantasia, ma anche un quoziente intellettivo superiore alla media, sono armi tanto efficaci quanto un set di coltelli poco affilati

Nella sua nuova stanza la radio di notte suonava piano , mentre con la luce di un abat-jour e i libri tentava di illuminare la propria mente. Fino a consumarne la copertina, leggeva e rileggeva la storia di una donna che si chiamava Von Salomé cercando nell’intelligenza e nel coraggio femminile la ragione di un’inspiegabile ferocia umana.

Durante l’inverno, nella scuola d’elité sparirono dalla cassa dell’aula di disegno i soldi che dovevano servire all’acquisto di materiale didattico. L’insegnante dai capelli rosso sangue che indossava Rey-Ban scuri anche quando fuori era già scesa la sera, non nutriva incertezze sull’identità del malfattore. Der Mörder ist immer der Gärtner recita una vecchia canzone tedesca, però in assenza di un giardiniere omicida il misfatto era, senza ombra di dubbio, da attribuire alla figlia di un cameriere. Dopo che il preside della scuola convocò i suoi genitori per metterli al corrente dei sospetti – Fondati, Signori miei, credetemi, anche se non abbiamo le prove! – questi la sottoposero a un interrogatorio pressante che non servì a fugare il loro timore di aver partorito una figlia ladra: in famiglia la presunzione di innocenza era considerata un’astrazione intellettuale .

Non avrebbe voluto frequentarla quella scuola, dove gli insegnamenti spartani di un’infanzia trascorsa tra i campi e una chiesa dal campanile storto venivano devastati dalle false certezze di un mondo di vetture di lusso, partite a tennis e mercatini di beneficenza, ma tredici anni sono pochi per scegliere la propria strada. Sono però sufficienti perché l’istinto di sopravvivenza vinca sulla rassegnazione. Così barattò i suoi maglioni a righe e la sua voglia di studiare contro un chilo di accettazione: chiuse i libri, si lasciò crescere la frangetta evacquistò un jeans da chiudere stesa sul letto con l’ausilio di un paio di pinze.