Qualcuno tornò a casa

Nei pochi minuti che i Carabinieri impiegarono per salire le quattro rampe di scale, Anna passò mentalmente in rassegna tutte le possibili ragioni di quella visita senza però trovarne alcuna plausibile, mentre sua madre la stava vedendo già in galera per chissà quale terribile misfatto. Gesù! Lo aveva detto lei che quella figlia sarebbe finita male!
In realtà però i due signori in divisa non erano lì per Anna bensì per Siria, l’ex compagna di scuola con gli occhi da cerbiatto e la bocca sempre accesa di rosso. La ragazza era scomparsa e la stavano cercando dappertutto. Anna ne sapeva qualcosa? Quando lei rispose che non vedeva Siria da diversi mesi ormai e che, spiacente, non sapeva davvero come aiutarli, ringraziarono e se ne andarono così come erano venuti.
Peccato, pensò Anna, la suspense era già finita.
Nei giorni a seguire si seppe che, durante le indagini sulla sparizione della minorenne (soltanto per qualche giorno ancora), qualcuno aveva messo al corrente le forze dell’ordine delle giocose consuetudini sessuali di Siria, che nel tempo aveva continuato a partecipare alle partite di strip-poker con lodevole costanza. Consuetudini di cui i Carabinieri, ligi al dovere, avevano provveduto a informare immediatamente i genitori della ragazza.
Seguirono diversi giorni di ricerche infruttuose. Siria sembrava essersi dissolta nel nulla. Infine però giunse una lettera in cui la ragazza con calligrafia svolazzante comunicava che, stanca di vivere con un padre guardiano che la considerava un poco puttana, aveva deciso di tornarsene a casa. Aveva scritto proprio tornare a casa intendendo l’abitazione della zia tedesca a cui i genitori tanti anni prima l’avevano affidata. Così il padre siciliano, che da molto tempo ormai non era più doubleface, la diseredò con tanto di atto notarile per lasciare tutto all’altra figlia, quella che nel frattempo si era sposata con il vigile urbano e gli aveva dato un bel nipote maschio che portava il suo nome.
Anna non si meravigliò della scelta di Siria di fuggire lontano. Si meravigliò invece della scelta della parola casa provando anche un pizzico d’invidia.

Vietato sputare

Quando ormai l’estate era alle porte, la nonna che era rimasta a vivere da sola nella grande casa nel paese con il campanile, decise di fare visita a figlia e nipoti. Arrivò insieme a un’amica dopo interminabili ore di treno, lei che il treno lo aveva preso soltanto per accompagnare il figlio minore nella città che distava mezz’ora da casa, il primo giorno di scuola.
Durante la loro vacanza a Roma, Anna accompagnò le due donne a vedere la città e, siccome l’amica della nonna era la proprietaria ricca dell’unico caffè del paese con il campanile e le giornate di primavera, quell’anno, erano particolarmente calde, non si spostavano con l’autobus, ma prendevano il taxi. Anche quando si fermavano un’ora e più per prendere il gelato sedute davanti a Montecitorio, la signora chiedeva all’autista di attendere, noncurante del tassametro che continuava a correre. Era una donna gentile e fiera della propria posizione sociale e, alla fine dei loro tour, lasciava sempre una mancia generosa al tassista di turno.
Se anche questa donna con i vestiti eleganti e lo chignon bianco era la migliore amica della nonna, Anna non era riuscita, in quelle occasioni, a reprimere un crescente senso di insofferenza, tanto che aveva concluso il giro-città del terzo giorno indicando alle due donne – accompagnando il tutto con descrizioni dettagliate – le baracche di alluminio e le discariche abusive con vecchi televisori, water e materassi, che popolavano la periferia, e le prostitute che, invece di nascondersi in bordelli dalla facciata incolore, battevano sotto al sole i marciapiedi con indosso vestiti sgargianti. La nonna ne era visibilmente irritata e un po’ ad Anna questo dispiaceva, ma era più forte di lei: l’atteggiamento del buana bianco cortese che si compra con le sue monete d’oro la realtà più pittoresca di un luogo, le risultava sempre più intollerabile.
Lei non apparteneva a quella città e amarla non era stato facile, perché Roma non era soltanto chiese, monumenti, vicoli e Papa, Roma era anche traffico, sporcizia, povertà, sputacchiere negli uffici pubblici e il cartello Non parlare al conducente fissato accanto a quello che recitava Vietato sputare sul tram che spesso non funzionava, perché gli scioperi erano all’ordine del giorno, e a lei toccava farsi dici chilometri a piedi, ma aveva imparato ad amarla così.
Perché poi l’amore è questo, si diceva: il sentimento per il contenuto e non per un bel contenitore.

Meno uno

In quel periodo, Anna dismise la sua lingua madre da un giorno all’altro così come ci si sfila una vecchia divisa che odora di cattivo. La lingua che aveva tanto amato per la sua chiarezza e nella quale aveva scritto pagine fitte fitte alla luce fioca di una torcia, mentre in casa tutti la credevano addormentata, l’idioma che era stato la prima voce delle sue emozioni, non le ricordava più le poesie di Rilke, ma le provocava soltanto disagio: se da un lato le richiamava alla mente i volti arroganti che abitavano il ghetto dorato, dall’altro faceva di lei e della sua nuova compagna di viaggio due forestiere su quel tram che, al suono del dialetto romanesco, le trasportava in periferia, stipate tra corpi sudati, verdure, pesce e il carbone che si trovava sotto al primo sedile. Sarebbero serviti oltre trent’anni per farla tornare alla lingua da cui tutto aveva avuto inizio.

Fece però ancora un ultimo tentativo di trovare l’inclusione e anche l’amore tra chi condivideva con lei i banchi di scuola, perché la speranza è sempre l’ultimissima a morire e perché i ripensamenti sono tipici di ogni adolescente che si rispetti. Visto mai, magari aveva sbagliato, magari la convinzione di non essere accettata era soltanto figlia dei fantasmi che svolazzavano nella sua testa.
Così, nel campo estivo, tra le acque trasparenti della Sardegna, le prime ubriacature, la luce dei falò e il ronzio delle zanzare, le capitò di infatuarsi ancora. Si trattava di due fratelli appartenenti a una delle famiglie più ricche ed elitarie dell’istituto, con i quali condivideva i natali, le sigarette fumate di nascosto e null’altro ancora. Non si invaghì di entrambi contemporaneamente; ci fu una sorta di passaggio bilaterale delle consegne quando il maggiore dei due dovette ripartire anzitempo, passaggio al quale lei si adattò senza tante storie, perché la bellezza in quella famiglia era di casa e lei aveva un’intelligenza estetica piuttosto sviluppata. Terminata l’estate però,  dovette constatare che una nazionalità condivisa e qualche sigaretta non sono sufficienti per abbattere le divergenze sociali e che dei dolci baci all’ombra di un pino non costituivano curriculum valido per essere promossa da flirt estivo a frequentazione invernale. Di ritorno a scuola, i suoi amori estivi – entrambi – finsero di non conoscerla e se qualcuno degli altri compagni alludeva a quanto era accaduto, si nascondevano dietro a una risata.
Inutile insistere, decise Anna. Avrebbe dovuto cercare la sua prima volta fuori da un mondo dove evidentemente non possedeva i requisiti perché le venisse riconosciuta la cittadinanza d’onore. Il tempo stringeva. Mancavano solo pochi mesi al suo quindicesimo compleanno, ormai.
Si leccò velocemente le ferite e diresse la sua attenzione verso il mondo numero due (o forse era il tre; con i numeri faceva sempre gran confusione) che abitava.