Blu

Sofia era in preda all’agitazione. Nervosa si passava le mani tra i capelli, lisciava le pieghe della gonna lunga (avrebbe forse fatto meglio a sceglierne una più corta e meno ampia per affrontare quel percorso?) e guardava continuamente l’orologio nonostante sapesse che quello invece di andare avanti si ostinava a camminare all’indietro. Si stava recando al villaggio per salutare un caro amico che non vedeva esattamente da una vita e, come sempre, era in ritardo. 
Mentre a passo spedito percorreva l’ultimo tratto del sentiero che si inerpicava fin sul punto più alto della collina tra cespugli di ginestre, noci e faggi, la caviglia le cedette e scivolò lungo il pendio. Fortunatamente la gonna fiorata che indossava si fermò a salutare un cespuglio e arrestò così la caduta prima che Sofia si ritrovasse nuovamente al punto di partenza.
Sporca di terra, con i capelli che come serpenti erano avvinghiati tra loro, tentò di rimettersi in piedi senza però riuscirvi , perché la sua testa sbatté contro quello che sembrava essere un soffitto di pietra. Sofia allora si sedette a gambe incrociate e strofinò via la terra dagli occhi nella speranza di vederci più chiaro. E, in effetti, una luce fioca illuminava la grotta sotterranea dove si trovava. L’ambiente sorretto dalle radici di un albero gigante era arredato con semplici mobili di faggio, ma conteneva tutto quanto serve: un letto ampio, un tavolo, due sedie, uno scaffale con moltissimi libri disposti in ordine di altezza, qualche quaderno e una penna stilografica. C’erano anche un fornello e un mobile che fungeva da dispensa. Un liquido denso e verde bolliva in un pentolone sopra alla fiamma accesa e l’odore di minestrone riempiva l’aria. Odio le verdure, pensò, anche se non era quello il momento opportuno per pensare al cibo.  
Quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, scorse in un angolo un animale alquanto bruttino che indossava un meraviglioso manto blu lucente. Sofia un po’ spaventata e molto incuriosita gli sorrise, ma l’animale si limitò a grattarsi un orecchio con una delle sue tante zampe. Lei non si lasciò scoraggiare e tentò un secondo approccio, ma anche questa volta l’essere dal cappotto blu si mostrò scostante biascicando un qualcosa che forse era il suo nome e, al contempo, faceva dei rumori di pancia di dubbia eleganza.

Nonostante una vocina interiore le sussurasse che sarebbe stato saggio prendere il largo, Sofia continuò a fissare come ipnotizzata il blu che avvolgeva il corpo del suo ospite indisponente. Il blu è un colore meraviglioso, pensò suo malgrado, d’altronde per questa ragione il mare e il cielo non erano di un altro colore, per esempio marrone. All’idea di un porticciolo dove romantiche barchette si muovevano al ritmo di increspature color marrone, le scappò in una risata.
L’animale blu sollevò la testa e la guardò in modo severo. Nonostante si sforzasse di non ridere, Sofia, non riuscì a smettere. Rideva tanto che lacrime le scendevano lungo le guance ancora sporche di sabbia. Alla vista di quella giovane con le gote imbrattate, anche l’animale dismise la sua espressione scostante e rise. E mentre ridevano insieme, il suo manto divenne tanto lucente da illuminare di un calore blu l’intera grotta. Il blu è un colore meraviglioso, pensò Sofia suo malgrado, e poggiò l’orologio della nonna sulla libreria prima di guardare l’ora per dimenticarsene subito dopo.

Di chi ha tanti capelli

Sofia si avviò verso l’altopiano indicato dal cartello. Il sentiero saliva ripido tra montagne brulle; non si vedeva anima viva in giro e le pochissime case, nascoste tra gli alberi, avevano l’aria di essere state abbandonate da tempo. Sofia ebbe la sensazione di essere stata catapultata nella terra di nessuno. Già dopo pochi passi lo zaino che portava in spalla si era fatto pesante come se, invece delle poche cose che vi aveva racchiuso,  contenesse un carico di sassi.  Il sole adesso era velato da nuvole grigie che non lasciavano presagire nulla di buono. “E non ho nemmeno l’ombrello” borbottò, ridendo al contempo di quel pensiero e di sé. Non portava mai l’ombrello, odiava gli ombrelli così come detestava qualsiasi cosa che le impedisse di muoversi liberamente. Ma non fece in tempo a terminare queste riflessioni che il cielo si oscurò e un vento gelido sollevò la terra mischiandola a una pioggia impietosa.
Bastò una manciata di minuti perché Sofia si ritrovasse bagnata come un pulcino, ma non le sembrò una buona idea ripararsi sotto gli alberi. Strinse i denti e proseguì confidando nel fatto che i temporali estivi solitamente durano poco. La sua fiducia nella natura si rivelò però mal riposta e presto comprese di dover cercare un luogo dove aspettare che la pioggia si placasse. E forse fu per mano del fato o di chissà chi e cosa, che proprio in quel momento, nel buio della tempesta, le parve di scorgere in lontananza una finestra illuminata.
Intirizzita, strinse più forte tra le mani le bretelle dello zaino e raggiunse faticosamente la casa dalla quale aveva visto provenire la luce. Quando vi giunse, era talmente esausta che attribuì a questo la visione surreale che le si parò davanti: un uomo con così tanti ricci in testa da ricordarle la canzone di Lucio Dalla, quella in cui si domanda se di chi ha tanti capelli ci si può fidare, le stava spalancando la porta con un gran sorriso. Sofia ebbe l’impressione che la stesse aspettando, ma si sa, la stanchezza può giocare brutti scherzi. Troppo sfinita per interrogarsi, lasciò che lui la prendesse per mano e l’accompagnasse davanti al camino acceso che faceva bella mostra di sé in un salone arredato con mobili di legno chiaro, quadri d’autore e morbidi tappeti. Mentre lei sprofondò in una grande poltrona di velluto sorseggiando il vino che il suo cortese ospite le aveva versato, l’uomo con voce morbida parlava. Non le chiese nulla, non faceva come spesso fa la gente; non sembrava voler sapere, piuttosto sembrava sapere già. E semplicemente lasciva scorrere le parole senza esitare, in modo pacato, dolce come un ruscello che attraversa il bosco. Tra il calore del fuoco e quella voce rassicurante, lei  non si stupì e si sentì al sicuro, fino a cadere e in un sonno profondo senza nemmeno accorgersene.

Si svegliò per il gran freddo. Il fuoco doveva essersi spento. Sofia si tirò su e cercò con lo sguardo il camino, ma non lo trovò. Non c’erano nemmeno i mobili di legno e la grande poltrona nella quale ricordava di essersi addormentata: la stanza era completamente spoglia ad eccezione di un letto di ferro sul quale si accorse di essere sdraiata. Spaventata, saltò giù e si diresse verso la porta. Abbassò  la maniglia, ma scoprì, mentre il cuore le arrivò in gola, che la porta era chiusa a chiave. Cercando di non farsi prendere dal panico, corse alla finestra. Tirò l’anta: fuori la pioggia aveva lasciato il posto a una nebbia fitta che sembrava aver trasformato l’altopiano, dove si trovava la casa dell’uomo, in un luogo abitato  da mostri e fantasmi color latte. Quando Sofia vide che davanti ai vetri erano fissate robuste grate di ferro, le mancò il respiro. Anche se sapeva che nessuno avrebbe potuto sentirla in quel luogo desolato, provò lo stesso ad urlare, ma incomprensibilmente nessun suono usciva dalla sua bocca. Allora bussò alla parete, prese a calci la porta e con unghie e denti cercò di limare il ferro delle grate, ma infine si dovette rassegnare: era prigioniera della storia di un uomo che viveva sull’Altopiano della Comunicazione. Così si accasciò sul pavimento e pianse, lei  che rideva sempre. Le lacrime scivolavano copiose lungo le sue guance trasformandosi in pesanti gemme color rosso sangue che Sofia, dondolandosi avanti e indietro senza smettere mai, raccolse con uno di quei gesti il cui senso sfugge alla ragione umana.
Molti anni dopo, un escursionista avrebbe trovato uno scheletro di donna disteso in una casa vuota. La testa  della donna  poggiava su un cuscino di rubini. La porta d’ingresso era socchiusa.

Il treno per Neverland

Sofia si svegliò in quel momento in cui la notte, con discrezione, lascia il posto al giorno e la luce di una nuova alba cancella le inquietanti ombre dell’oscurità. Accompagnata soltanto dal chiacchiericcio dei pappagalli e dall’eco dei propri passi, si avviò decisa verso la stazione che, probabilmente sempre per colpa dello strano ritmo delle lancette sull’orologio della nonna, raggiunse molto prima del previsto.
Grigi edifici segnati da crepe, binari di ferro arrugginito e poche biglietterie dove, dietro ai vetri sporchi, sedevano tristi impiegati con la faccia di chi avrebbe voluto trovarsi altrove, qui dipingevano un quadro surreale agli occhi di chi guardava.
Senza leggere la destinazione, Sofia salì su uno dei treni che, rassegnati, stavano attendendo in silenzio il fischio di partenza. Scelse uno scompartimento vuoto (ma, chissà, forse erano tutti vuoti), dispose lo zaino sul portapacchi, estrasse uno dei tavolini consunti dove poggiò quaderno e penna, e prese posto davanti al finestrino.
Dopo pochi minuti si udì  il fischio del capostazione e il treno, sbuffando tra i morsi urlanti del ferro, si mosse lentamente, mentre Sofia si addentrò senza una meta precisa tra i propri pensieri.
Da bambina aveva letto tutti i libri di Karl May rubati allo zio, e la sua immaginazione era stata rapita dalle avventure di Old Shatterhand così tanto da farle sognare di imitare quell’uomo coraggioso arrivato nel West al seguito dei pionieri, ma una volta cresciuta – forse perché i cavalli la intimorivano  o perché la polvere la faceva starnutire – aveva deciso che un destriero non era il mezzo più adatto a realizzare il suo sogno di andare lontano: molto meglio il treno. Adorava la ferrovia, soprattutto se il treno era come quello su cui si trovava ora, uno di quelli vecchi che si muovono lenti; le piaceva la sensazione  che provava entrando dolcemente in una realtà sconosciuta, scoprendola piano piano.

Fuori dal finestrino la fila di alberi verdi che cordiali l’avevano salutato senza che lei, troppo assorta nei suoi pensieri,  ricambiasse, aveva lasciato il posto a un banchina alle cui spalle si innalzavano i monti. Un grande cartello recitava: “Confine”, mentre uno più piccolo, arrugginito e appeso in quel luogo da chissà quanto, avvisava il viaggiatore dell’esistenza di un sentiero che conduceva all’Altopiano della Comunicazione. In fretta e furia Sofia raccolse le sue poche cose, i suoi geni bicolore, un pizzico di coraggio e si affrettò a scendere dal treno.