Dopo quell’estate, non solo Anna tornò a scuola, ma prese anche a lavorare come baby-sitter: era determinata a liberarsi quanto prima dai sermoni che i genitori le tenevano ogni mese per ricordarle quanto costava in termini di prosciutto e di abbonamento del bus.
I genitori che le affidarono la bimba di pochi mesi, invece, erano due simpatici giovani di sinistra, lui sindacalista e lei psicoterapeuta, che vivevano in un bell’appartamento nel cuore della città. Anna li ammirava per il loro look accuratamente trasandato e i discorsi impegnati che facevano, anche se nutriva qualche dubbio sull’appropriatezza del sedativo che la donna somministrava alla piccina per tenerla buona. Non espresse però mai la sua disapprovazione ad alta voce: quei due erano laureati e dovevano per forza saperne più di lei che ancora non aveva nemmeno preso il diploma. E che forse mai lo avrebbe preso, pensava sconsolata, quando la sera rientrava stanca e trovava la pila dei vestiti sporchi accatastati nella vasca da bagno: era l’implicita esortazione materna a fare il bucato, perché, come teneva a sottolineare la stessa, una madre non è mica la serva dei propri figli. Che le madri solitamente utilizzano la lavatrice o lasciano perlomeno che la usino i figli, era un commento che Anna sapeva di potersi risparmiare con chi, indossando esclusivamente costose scarpe fatte su misura perché aveva un piede diverso dall’altro – come tutti, brontolava Anna tra sé e sé – concedeva alle figlie un solo bagno a settimana e per lavare i piatti usava, al posto delle spugnette, delle pezze confezionate con le mutande riciclate del marito, pur di risparmiare qualche lira.
Comunque in quei mesi la vita di Anna stava trascorrendo in modo insolitamente tranquillo nonostante i conflitti in casa, che erano causati non solo dalle pile di panni da lavare a mano, ma anche dai voti piuttosto bassi che prendeva a scuola. Le piacevano il latino, la storia e la letteratura italiana e quando qualcosa le piaceva, le riusciva bene, ma il greco non le piaceva affatto. La metrica la spaventava allo stesso modo in cui la intimorivano il solfeggio e la matematica. Le creavano imbarazzo.
Decisamente il suo professore di lettere del quarto ginnasio, un ometto piccolo e piuttosto bruttino per colpa di un forte strabismo, che entrava in classe inveendo contro lo Stato mentre esibiva la propria busta paga e lodava al contempo il movimento di Autonomia Operaia, doveva aver peccato di ottimismo, quando l’aveva promossa nella certezza che in estate la ragazza avrebbe trovato modo di colmare le proprie lacune.
Non lo aveva fatto e non lo stava facendo neanche in quell’autunno quando, nei pochi pomeriggi liberi, preferiva recarsi nella vicina sezione del PCI, sempre alla ricerca di un luogo che le avrebbe donato il senso di appartenenza. Partecipava a riunioni, assemblee di cellula e feste dell’unità con allegria e con la gradevole sensazione di far parte, almeno un po’, di un’umanità che stava rendendo il mondo un luogo migliore.
Fu durante questo periodo di relativa tranquillità che una sera tardi suonarono alla porta di casa. Erano già le dieci passate e comunque nessuno, ad eccezione di nonno Opri, suonava mai alla loro porta. Con il sopracciglio alzato, la madre di Anna sollevò la cornetta del citofono. Sentì una voce maschile rispondere:
-Carabinieri. Signora, sua figlia Anna è in casa? Ci apra, per favore.
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Chi fa da sé
L’omertà o, per dirla in modo più carino, la consuetudine a tacere sui fatti che accadevano in ambito familiare, era praticata con grande impegno dal ramo nordico della famiglia. Mentre i figli e nipoti di nonno Opri erano persone estroverse, chiassose e grandi chiacchieroni, la parte settentrionale della stirpe tendeva, in barba a tutti i cliché, ad avvolgere nel silenzio tombale ogni accadimento nemmeno si trattasse di un affare di stato.
Ma non dirlo a tuo zio, tua zia, ai cugini era la frase che puntualmente accompagnava i racconti, che si trattasse di uno scippo subito, di una malattia o del cugino scemo che era stato denunciato perché molestava telefonicamente le vecchiette del paese con il campanile. Ovviamente c’era sempre almeno uno dei parenti che non sapeva resistere alla tentazione di spifferare l’ultimissima nuova, eppure ognuno viveva nella granitica certezza di essere l’unico detentore della verità vera sulla storia familiare.
I primi di settembre Ennio tornò finalmente dalle vacanze al mare. Quando Anna gli raccontò della violenza subita, lui ne fu sconvolto e tentò l’impossibile per farle tornare il sorriso. I ragazzi ripresero a frequentarsi, ma qualcosa si era inesorabilmente rotto: lei fuggiva l’intimità e se, anche solo per caso, il ragazzo le sfiorava il collo, veniva presa dal panico sentendosi soffocare. Cominciò ad evitarlo e come un gatto ferito passava le giornate vagabondando senza meta per le strade di Roma.
Pochi giorni prima della riapertura delle scuole però prese la decisione – del tutto incomprensibile, secondo Ennio – di tornare, per un’ultima volta, a cercare il suo amico con i mustacchi nel bar vicino alla vecchia scuola.
Mentre interrogava per l’ennesima volta l’alquanto reticente barista per scoprire dove accidenti mai si trovasse Enrico, Anna sentì un voce melliflua alle proprie spalle. Proveniva da un viso coperto a metà da un paio di Ray-Ban, che apparteneva a uno dei tre fratelli noti per la fama del loro cognome. Si trattava del più bello dei tre. Qualche volta, mentre sedeva al bancone insieme a Enrico, Anna ci aveva scambiato poche parole, ma considerava quel trentacinquenne uno sciocco vanesio e in tempi normali non si sarebbe fermata a chiacchierare con lui. Quelli però non erano tempi normali per lei – ammesso che un valore numerico possa estendersi ai tempi della vita – e così gli diede corda.
Per una mezz’ora abbondante il bello con i Ray-Ban si esibì in una serie di ruote da pavone, poi la invitò a bere una cosa insieme a casa sua, dove aveva appuntamento con un amico. Che sicuramente si stava spazientendo per il suo ritardo, visto che dovevano discutere una cosa importante, aggiunse. Senza interrogarsi sui propri perché, Anna accettò e dopo poco si ritrovò in compagnia dei due uomini nel salone di un appartamento situato nei quartieri nobili della città. Mentre il bello e l’amico conversavano delle solite cose loro bevendo Martini, con grandi sorrisi la invitavano a fare altrettanto. Lei solitamente beveva aranciata, ma decise di fare un’eccezione (un’altra) alla regola. Al Martini i due fecero seguire uno spinello e Anna, che stava percorrendo chissà quale sentiero confuso e che non aveva mai fumato, non si tirò indietro e accettò di fare qualche tiro, anche se, quando si recò in bagno, scoprì che una terribile nausea le stava impedendo di mettere a fuoco il proprio volto nello specchio e anche l’esatta posizione del water. Quando ne uscì, trovò il bello con i Ray-Ban che stava lasciando la casa per tornare subito, come le assicurò.
Anna si accasciò sul divano. Avrebbe voluto dormire, ma la testa che girava e l’amico del bello non le concessero la sperata tregua. Già dopo un paio di frasi vuote, le mani dell’uomo le sfiorarono il viso spostandosi poi velocemente lungo il collo fino a tastare il suo seno come i tentacoli di una piovra che avviluppa la preda. Quando Anna, anche questa volta, espresse il proprio rifiuto, lui la rovesciò sul letto e si mise cavalcioni sopra di lei sollevandole la gonna e strofinando il proprio corpo su quello della ragazza. Con uno sforzo sovrumano lei riuscì a liberarsi e, se anche questa reazione scatenò l’ira di lui che la prese a ginocchiate sui fianchi e la colpì con un pugno in pieno viso, corse verso la porta e fuggì dall’appartamento.
Senza sapere come, Anna raggiunse la stazione del tram dove, tra la nebbia dei pensieri e dello stordimento da alcol e fumo, scoprì che proprio quel giorno era stato indetto uno sciopero generale e che non ci sarebbe stato alcun mezzo pubblico a portarla a casa. Così si incamminò a piedi. Cinquanta minuti dopo si ritrovò nella propria stanz. Era coperta di lividi, aveva un occhio nero, i piedi doloranti, ma provava la folle euforia di chi ha vinto.
Per quanto la sua automedicazione possa definirsi scientificamente discutibile, quel giorno Anna si affrancò, a modo suo, dai sensi di colpa per non aver lottato abbastanza contro il cugino del biondo. Sugli effetti che tutto ciò ebbe invece sulla sua sessualità non è dato sapere.
Omertà del profondo nord
Quando la porta le si chiuse alle spalle, Anna scoprì con sollievo che in casa c’era soltanto la sorellina che era impegnata con i compiti estivi. Velocemente si infilò in bagno e aprì la doccia. Lo scroscio dell’acqua si mischiava alle lacrime, mentre cercava di sciacquare via l’odore, il seme e il ricordo di quell’individuo. Più del dolore per la violenza subita però prevalevano in lei la sensazione di essere stata una stupida a fidarsi di uno sconosciuto e, soprattutto, il lancinante dubbio che avrebbe potuto impedire tutto questo se solo avesse lottato abbastanza. Per quanto strofinasse, questi pensieri la tormentavano senza lasciarsi lavare via .
Esausta si asciugò corpo e lacrime e uscì dal bagno proprio mentre la madre stava rincasando. Al suo sguardo interrogativo, quando vide il viso gonfio e gli occhi arrossati della figlia, Anna rispose scoppiando nuovamente in un pianto violento. Tra singhiozzi e muco raccontò quello che le era accaduto. Non sapeva esattamente quale reazione attendersi, ma sperava intensamente che la madre le confermasse che no, il sospetto non andava mai coltivato e che sì, aveva fatto bene a non mettere a rischio la propria vita, e che le sue parole avrebbero avuto il potere di liberarla da quel nero macigno che sentiva frantumarle il cuore. Sicuramente però non si aspettava le frasi che la colpirono come uno schiaffo in pieno viso:
– Mio dio! Devi sempre darmi dei pensieri. Basta che non lo venga a sapere tuo padre, che altrimenti mi uccide!
Con queste affermazioni la genitrice la licenziò, indossò il grembiule e scomparve in cucina per preparare la cena e stendere un velo di eterna omertà su quella storia.
Lei invece si chiuse nella propria stanza e vi trascorse parecchio tempo cullandosi in un buio integrale a cui nessuno avrebbe avuto accesso fino al giorno in cui avrebbe, ancora una volta, deciso di vincere la vita.
In quel periodo Anna comprese che se anche i folli si cullano per non sentire forte il dolore, forse non sempre i folli sono loro.