T.amara

Dopo la visita dei Carabinieri e la notizia della lettera che aveva fato recapitare al padre, di Siria non si ebbero più notizie. Non che Anna fosse dispiaciuta per quella definitiva scomparsa della ragazza: non era mai riuscita a tollerarne la mancanza di intelligenza. Questo però l’aveva fatta sentire una persona arrogante che, ingiustamente, se la prende con chi ha una sorta di difetto di fabbrica.
Ma Anna si sbagliava. Se anche Siria non sarebbe ricomparsa, riuscì a materializzarsi per interposta persona. Con l’ ingenuità disarmante che la caratterizzava, accompagnata dal bagliore accecante che contraddistingueva le sue idee bislacche, a modo suo tornò. Quasi subito.

Anna si stava preparando per andare al lavoro. I genitori della bimba avevano un impegno e lei era in ritardo, ma la nonna era venuta in visita e così avevano pranzato tutte insieme perdendosi in chiacchiere. Squillò il telefono. Infilandosi una manica della giacca, sollevò la cornetta del telefono con il braccio libero.

Anna? chiese una vocina esitante dall’altra parte del filo
Sono Tamara, proseguì, senza darle il tempo di rispondere.
Sono una ragazza turca, scappata di casa, perché mio padre mi picchiava. Sono arrivata in treno da Monaco e ora sono alla Stazione Termini e non so dove andare. Siria mi ha dato il tuo numero dicendomi che mi avresti sicuramente aiutata…
Anna ingoiò una risposta che si sarebbe rivelata poco simpatica e attese che la vocina terminasse quanto aveva da dire.
…o che altrimenti mi devo rivolgere ai vostri amici del bar vicino alla scuola. Ma non ho i loro numeri e non so come arrivare a quel bar!
Per fortuna, brontolò Anna tra sé, mentre le lancette dell’orologio da polso, che indossava, procedevano impietose e i suoi pensieri arrancavano alla ricerca di una soluzione per quella voce al telefono mandatale da lontano.

Casa dolce casa

Si domandava se anche lei, come Siria, avesse una propria casa. Disponeva di un’abitazione sì, pensava, ma casa non era solo un posto dove mangiare, dormire e studiare; casa era un’altra cosa o, per migliore dire, era tante altre cose ancora.
Il villino grigio dove era nata, quello che si trovava nel paese con il campanile, casa non lo era più da quando aveva abraso dalle tracce della propria memoria i ricordi e i nomi di chi l’aveva abitata insieme a lei, ma casa non era nemmeno quel bell’appartamento in città con i tappeti persiani, dove risiedeva da quando era arrivata in Italia e dove calore, affettuosità e risate rappresentavano degli ospiti assai rari.
Ogni volta che viaggiava in treno, Anna si incantava nell’osservare le finestre delle case che veloci le correvano accanto e fantasticava sulla vita che si nascondeva dietro a quelle tende. Che, chissà perché, nella sua fantasia era sempre festosa e piena di luce come le lenzuola colorate che nei giardini si muovevano al ritmo del vento.
Forse la immaginava così, perché le piaceva pensare che un giorno anche lei avrebbe potuto scrivere che stava tornando a casa.
Ma come si fa a trovare un casa? Si chiedeva.
Non un immobile da affittare o acquistare, ma un luogo caldo, accogliente, pieno di risate e di comprensione.
E quale era la chiave per definire un posto la propria casa?
Probabilmente, ancora una volta, la parola magica era amore, ragionava tra sé e sé, l’amore che, come dice Gaber, è una parola strana che vola troppo e che soprattutto volava troppo per Anna che si sentiva sempre più confusa in merito al suo significato.
Eppure lei non si sarebbe arresa. Avrebbe trovata una casa, la sua casa, si disse con determinazione. Tornò così, con i suoi progetti architettonici in tasca, a cercare di raggiungere l’amore.