A dirla tutta, quando alla fine di quell’estate, come ogni anno, raggiunse per alcuni giorni la nonna nel paese dal campanile, un leggero dubbio che le cose non stessero esattamente così e che forse non era brutta come credeva, la sfiorò.
Perché i suoi occhi castani e i capelli scuri che, durante l’infanzia, avevano indotto la gente a dire che somigliava a Gigliola Cinquetti – non perché vi fosse davvero una somiglianza, ma perché quella era l’unica cantante italiana che avevano visto nei loro televisori in bianco e nero – erano considerati simboli di bellezza dagli abitanti del paese. Una bellezza esotica. Definizione che faceva pensare parecchio a un ananas, ma che era pur sempre un segno di apprezzamento.
Anna però non aveva mai scritto a chi era rimasto tra le colline della sua infanzia e non aveva mai replicato alle lettere che le erano state recapitate. Seduta nel vagone che l’aveva portata in Italia, aveva cancellato, nel tempo di un viaggio, i volti dell’amica del cuore con cui aveva condiviso le risate e le gite sul trattore, dei cugini con i fucili di legno e le merende sotto il grande ciliegio, dello zio di sette anni più grande che le aveva insegnato ad amare l’inglese e che cantando bussava alle porte del cielo, e non si era più voltata indietro. Molte volte, in seguito, qualcuno le avrebbe chiesto se provasse nostalgia per i boschi e i prati dove era nata, per i compagni di scuola e se aveva ancora contatti con loro.
No, avrebbe risposto ogni volta, senza mentire. Perché diligentemente aveva stretto i denti e reciso i legami.
Non le fu dunque possibile approfondire una tesi alternativa per capire che il fascino è soltanto negli occhi di chi guarda.

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