La catena

Quando la guerra era terminata, nel piccolo villaggio tra colline, macerie e campi divelti erano rimasti soltanto donne e bambini; gli uomini erano morti di freddo o erano stati uccisi dalle granate, oppure erano troppo vecchi o malati per uscire di casa. Come sempre, quando la pace ritorna dopo un’assenza prolungata, non c’era stato il tempo per piangere i morti e nemmeno ce ne sarebbe stato più avanti. Fino al giorno in cui sarebbe stato troppo tardi, perché le lacrime si erano essiccate alla resilienza così come si asciugano i pomodori al sole.
Accompagnava spesso la nonna agli incontri settimanali organizzati dall’associazione delle vedove di guerra. Le donne si ritrovavano nella caffetteria in piazza, davanti a torte al cioccolato e ricordi, mentre lei, seduta composta sulle sedie imbottite, infilava il cucchiaino nel gelato. Le osservava e cercava nei volti rugosi e nei chignon bianchi le giovani che aveva veduto sulle foto e nei vecchi film: ragazze sorridenti e dallo sguardo sognante che ballavano al ritmo di un valzer, mentre le trecce lunghe sfioravano il pizzo del vestito e la certezza che il futuro sarebbe stato buono con loro.
Sorridevano ancora, le vedove del paese, ma era un sorriso dalla  luce diversa. Le poche volte in cui cedevano al pianto, poi, lo facevano quando nessuno poteva vedere, come in quelle sere quando il sole tramontava freddo, ancora una volta, sulla stufa e il mobile buono di casa, dove una foto in bianco e nero troneggiava come un pensiero lacerante.
Molte di loro avevano dovuto attendere più di vent’anni il suono del campanello che, all’improvviso, aveva strappato i fili di sutura della loro ferita, mentre lettere nere su sfondo bianco decretavano la morte presunta di chi, in segreto, erano sicure che mai le avrebbe abbandonate. Avevano pianto un poco, poi avevano stretto i denti e guardato avanti, anche allora. Perché era giusto fare così e questo avrebbero insegnato alle figlie che, a loro volta, non avrebbero osato spezzare quella catena.

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