Seduta davanti alla finestra della cucina per non accendere la luce, infilava l’ago con le mani rugose ricoperte da macchie chiare. Fuori, nella casetta di legno posta sul davanzale, i passerotti litigavano becchettando chicchi mentre tutt’intorno la neve aveva avvolto il mondo in un manto bianco e un silenzio ovattato. Ricordarla era sentire ancora quegli odori. Che forse erano, anche se non lo avrebbe confessato mai a nessuno, emblema di casa. Di rifugio. Forse di amore, anche se amore era una parola che la intimoriva.
Odore di caffè la domenica pomeriggio, quando la noia sembrava ormai aver ingoiato l’intera giornata e anche la sua piccola persona. Domenica giorno del Signore e non stava bene giocare in strada o girovagare per i boschi, giorno in cui sua madre tirava a lustro per ore una casa immacolata e poi si rifugiava a leggere sul divano, domenica di silenzio e di salici piangenti insieme alla pioggia domiciliata tra quelle colline a quadri verdi e marroni. Aroma di chicchi neri tostati che penetrava il tedio e la solitudine di una figlia unica ancora e inadeguata, che raccontava di una tavola imbandita intorno a un vaso con margherite e rose, di torte con la cioccolata e un recipiente stracolmo di panna da cui spuntava un cucchiaio d’argento all’uopo assegnato, del vocio di vecchie signore vedove di guerra che narravano storie nuove e altre ascoltate già mille volte, con occhi annacquati dallo scorrere del tempo e delle emozioni che avevano saputo affrontare con risate e il coraggio della disperazione.
Fragranza di biscotti nei giorni che precedevano il Natale, quando la casa era inondata dalle note di canti natalizi che provenivano dal nuovo stereo appositamente acquistato, sua madre che sfogliava nervosamente l’ultimo catalogo di acquisti per corrispondenza, in mano una calcolatrice che visualizzava le cifre che si sarebbero potute investire, e nervosa si passava una mano tra i capelli; gesto ipnotico con cui scacciava ciocche ribelli e il pensiero di una festa che detestava, perché le feste sono fatica in cucina, accoglienza forzata e soldi spesi inutilmente.
Odore di biscotti che la traeva in salvo come il fischio di un treno che porta in un luogo bello e richiama il passeggero in ritardo alla stazione, e si catapultava giù per le scale per aspettare impaziente che il forno ne annunciasse la cottura, dopo che, in ginocchio sulla sedia troppo alta, aveva disegnato stelle nella farina che imbiancava il vecchio tavolo di legno, ispirandosi ai cristalli di neve che illuminavano la notte nera, e intinto il dito nell’impasto mentre lei non se ne accorgeva o forse fingeva soltanto.
Profumo dolce di cera fusa e di abete il giorno della Vigilia, quando ormai sua madre era sull’orlo dell’esaurimento nervoso e le emicranie la costringevano a ritirarsi nella camera buia con un panno umido che le copriva la fronte, e suo padre, come sempre nei giorni festivi, lavorava perché quando tutti si riposano chi lavora guadagna di più e la vita è sacrificio e fatica.
Cera e abete e lo scampanellio che annunciava che Bambino Gesù aveva lasciato i suoi doni, la discesa sul corrimano di legno per fare prima dei cugini che già stavano entrando dalla porta sul cortile, la corsa verso il salone mentre lei, sua nonna, era sulla soglia con indosso il grembiule a fiori e rideva, e sempre lo stesso stupore di fronte all’albero che allora sembrava gigante, con gli addobbi rossi e oro e le candele vere, quelle con la fiamma che si doveva stare attenti a non toccare, e i pochi poveri regali incartati come se fossero preziosi rubati in un castello delle fiabe.
Odore di gelo e di naftalina, quando le chiedeva di dormire insieme nel letto grande, e gli altri erano ancora a guardare programmi televisivi che parlavano di pettegolezzi e disgrazie che lei non voleva ascoltare e si erano dimenticati di lei sdraiata in terra con le matite colorate a disegnare macchie di sogni sul foglio di carta ruvida, la stessa che aveva ritrovato in soffitta ricoperta dai disegni a carbone di suo nonno, quello che non era tornato dal fronte russo e dalla neve, quello che non aveva mai conosciuto ma la osservava severo quando scendeva le scale da quella foto in cui indossava la divisa senza sembrar cattivo.
Gelo e naftalina e grandi falene; lei la rassicurava dicendo che il freddo fa bene alla salute e le falene volano soltanto nella luce mentre al buio si posano immobili e non muovono le ali, ma lo stesso si infilava tutta sotto al pesante piumone, bene attenta a occupare solamente la metà del letto perché l’altra la lasciava all’angelo custode che non sapeva bene quanto fosse robusto, ma lo immaginava più o meno grande quanto lei anche se le ali forse avrebbero ingombrato come in quell’immagine che era appesa al muro, e si addormentava pensando che se era un angelo se la sarebbe cavata e poi la nonna stava ancora mormorando con il rosario in mano e le cose le avrebbe sistemate.

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